Bruce Springsteen è uno dei più grandi cantautori della storia della musica popolare. La sua carriera occupa ormai mezzo secolo e comprende oltre 20 album in studio, centinaia di canzoni, diversi dischi live ufficiali, una miriade di bootleg e concerti in tutto il mondo che non si contano più. Il Boss, come Bruce Springsteen è universalmente noto, siede nell’Olimpo dei grandissimi della musica certamente per la sua voce roca e potente e per l’inconfondibile sound prodotto dalla E Street Band, tra le più longeve e leggendarie band di tutti i tempi. Sfiorano poi il mito i suoi live, incredibili maratone rock di adrenalina e sudore, di emozione e intimità, lunghe anche quattro ore. Ma l’elemento più distintivo di Bruce Springsteen è la sua poetica. In pochi hanno saputo scrivere pagine di letteratura in musica come lui. Leggi le traduzioni dei suoi brani.

LA POETICA DI BRUCE SPRINGSTEEN

Springsteen è soprattutto un poeta rock. La sua narrativa è oggetto di studio nelle lezioni di letteratura americana e persino in numerose tesi di laurea. Bruce non ha solo scritto centinaia di testi colmi di poesia, ma si distingue per la sua capacità di racconto fotografico e cinematografico. Nei pochi versi di una canzone proietta su uno schermo quello che sta raccontando, catapultando l’ascoltatore nel bel mezzo della scena. Lui è lo storyteller (il cantastorie) per eccellenza. Molte delle sue canzoni, anche quando cantate in prima persona, sono veri e propri racconti. Raramente scrive canzoni manifesto, non lancia messaggi retorici, non detta la morale. Lui racconta solo una storia, sarà chi ascolta a ricavarne un significato.

IL GRANDE ROMANZO AMERICANO DI BRUCE SPRINGSTEEN

Riprendo Leonardo Colombati, che nel suo Like A Killer In The Sun ha definito Springsteen l’autore di un grande romanzo americano. Tra i massimi cantautori rock e folk lui è forse l’unico ad aver dato alla sua narrativa una consequenzialità che lega ogni disco e ogni canzone come se fossero i capitoli e i paragrafi di un solo grande romanzo. Un compendio della storia americana degli ultimi cinquant’anni, con particolare riferimento agli umili e agli emarginati, ma anche semplicemente alle donne e agli uomini ordinari che inseguono una realizzazione o cercano una redenzione dai propri errori, che lottano contro le pressioni verso il basso di una società iniqua e ingiusta. Una famiglia di provincia o dei sobborghi, gli amori, le amicizie, i drammi, i tentativi di riscatto.

LADIES AND GENTLEMEN: BRUCE SPRINGSTEEN AND THE E STREET BAND

Dietro a un grande artista c’è spesso una grande band. Per Springsteen quel gruppo di musicisti e di amici si chiama E Street Band. Sono pochi gli esempi nel rock di un legame così forte come quello che lega Springsteen alla sua storica band. Un legame interrotto per un decennio, necessario all’uomo Bruce per ritrovare se stesso e formare una sua vita privata. Ma, prima e dopo quel periodo, i componenti della E Street Band sono stati più di colleghi di lavoro, i suoi compagni di vita. La vita in studio e sul palcoscenico, il luogo dove il musicista è riuscito a creare una casa comune per lui, per la sua band e per la grande famiglia formata dai suoi milioni di fratelli e di sorelle in tutto il mondo.

BRUCE SPRINGSTEEN NELLA STORIA DELLA MUSICA

Si discute spesso del ruolo di Springsteen nella storia della musica. I suoi detrattori lo dipingono come un rocker classico che non ha inventato nulla. Altri fanno notare che non sia un eccellente chitarrista. È davvero fuorviante la logica per cui, per essere grandi, sia necessario essere sperimentatori o musicisti virtuosi. In tanti cadono in questo tranello. A volte per essere grandi serve fare al meglio quello che già esiste o fonderlo in qualcosa di bello, di forte. Bruce è figlio di Woody Guthrie, Pete Seeger e Chuck Berry, è il fratello minore di Elvis Presley, Bob Dylan, Johnny Cash, Van Morrison, Roy Orbison, John Fogerty, James Brown e Mick Jagger. Uno dei suoi meriti è stato quello di fondere il rock, il soul, il punk, il folk e il gospel in un sound forse classico, ma perfettamente riconoscibile e arrivato fresco nel nuovo millennio, contaminandosi occasionalmente con le sonorità dei decenni più recenti, perfino con episodi di rap e hip hop.

COSI’ DISSE MIAMI STEVE…

Stevie Van Zandt, uno dei più grandi amici e collaboratori di Springsteen, nella sua autobiografia Memoir: la mia odissea fra rock e passioni non corrisposte, ha riassunto perfettamente la posizione di Bruce nella storia (non solo musicale). Secondo lui Bruce stava contribuendo a far evolvere il rock, utilizzando tutte le forme d’arte che incontrava nella sua crescita culturale e professionale. Letterati come Dashiell Hammett, Raymond Chandler e James M. Cain, poeti come Rimbaud, Whitman e Ginsberg, registi come John Ford, Elia Kazan e Jacques Tourneur. E poi artisti come Van Gogh e Picasso. Ovviamente icone musicali come Little Richard ed Elvis Presley (gli sfacciati), i Beatles (gli abili), gli Stones (i sensuali), i Kinks (gli osservatori sociali), gli Who (potenti e immaginari), gli Animals (gli eroi della classe operaia), Bob Dylan (il genio lirico), Van Morrison (lo spirituale), i Byrds (gli ambiziosi), i Doors (i cupi) e The Band (gli storici).

IL ROCK MUORE…

Un altro merito indiscutibile di Bruce Springsteen è il messaggio che ha portato in quei difficili anni ’70. La rivoluzione culturale portata dal rock nel decennio precedente stava morendo. Mentre la battaglia per un mondo più libero e giusto si affievoliva, del rock rimaneva solo la parte autodistruttiva. I grandi profeti rock erano per lo più spariti. Alcuni perché morti a causa dell’abuso di alcool e droghe, altri perché schiavi di quegli eccessi, perdendo ogni contatto con il mondo reale e con la musica. Altri ancora, persa la vena compositiva, si erano imborghesiti, godendo della ricchezza che il rock stesso aveva loro donato. In quel momento, mentre la musica si spostava verso suoni e temi più leggeri (la musica dance, l’utilizzo dell’elettronica, il ritorno alla melodia e al suono pulito), qualcuno pronosticò la morte del rock. In pochi ebbero la forza di contrastare questa visione: la seconda ondata punk inglese, l’urlo orgoglioso di Neil Young in My My Hey Hey (“il rock’n’roll non morirà mai… è qui per rimanere”) e quel giovane musicista del New Jersey.

… IL ROCK E’ VIVO CON BRUCE

Springsteen, specie con Born To Run e con Darkness On The Edge Of Town, ebbe il merito di spostare il focus del rock da elementi come la morte, gli eccessi e l’autolesionismo a una visione più positiva: la speranza nella ricerca di una metaforica terra promessa. La realizzazione nella vita si può raggiungere con l’azione, con il movimento, con quattro buone ruote tramite le quali inseguire i propri sogni. Non il sogno americano (che è runaway, ossia effimero, sfuggente), ma i sogni di un individuo e di una comunità, anche piccoli ma essenziali: un lavoro, una casa, una famiglia, gli amici, una buona auto e un po’ di birre in fresco. Springsteen ha spesso criticato la sua nazione perché non sostiene l’individuo in questa ricerca, anzi tende a reprimerlo. Per Bruce la nuova ribellione del rock non era rappresentata dallo scontro, dalla distruzione, dal rifiuto, ma dall’azione, dalla ricerca di un proprio posto e di un proprio ruolo. Tutti elementi che verranno approfonditi nella sua lunga produzione artistica. Il valore assoluto è la vita (in contrapposizione alla morte quasi venerata da Jim Morrison). Un verso di Badlands (1978) è forse il momento centrale di questo percorso: “Per quelli che hanno un concetto, un concetto profondo interiore, che non ci sia peccato nell’essere contenti di essere vivi”. Ecco la nuova frontiera del rock: vita, ricerca, strada, redenzione.

LA STRADA DEL BOSS

Street è uno dei vocaboli più presenti nella narrativa di Springsteen. Niente di nuovo, viene da pensare. Nella cultura americana, condizionata dai grandi spazi e dalla necessità di movimento, la strada di Springsteen sembrerebbe un film già visto, un remake dei grandi classici musicali, letterari e cinematografici, ma sarebbe una lettura molto parziale. È innegabile che Springsteen abbia preso a riferimento alcuni grandi del suo passato nelle diverse arti, ma lui offre una visione meno epica ai suoi personaggi, mentre calcano la strada. Certo, ritroviamo nelle sue canzoni personaggi che corrono in auto. Alcuni di essi muoiono nel mito della velocità (di cui James Dean è stato la principale icona), ma tanti altri non inseguono quel mito fine a se stesso, stanno cercando una meta. La benzina è la speranza di trovarla. Chi sopravvive dovrà affrontare il prezzo da pagare (gli splendidi di protagonisti di Racing In The Street, Darkness On The Edge Of Town e delle disperate Something In The Night e Streets Of Fire). Dopo oltre 40 anni in Hello Sunshine e nell’album Western Stars troveremo quei sopravvissuti, insieme allo stesso Springsteen, invecchiati e soli, ma ancora in movimento, alla costante ricerca di qualcosa.

LE DONNE DI BRUCE

La letteratura rock è colma di femmes fatales, figure femminili intriganti, spesso compagne negli eccessi di uomini che vivevano al limite. I primi due album di Springsteen ci mostrano eroine femminili che non si discostano da quel cliché. Donne di strada e di periferia, perse tra uomini disperati, droghe, violenza e amori fallimentari. Da Born To Run in poi le donne assunsero per lo più un’altra veste: compagne di vita con cui intraprendere un viaggio di redenzione, donne da sposare con cui mettere su famiglia e sperimentare l’ebbrezza della genitorialità. Donne non più figlie dell’autolesionismo e degli eccessi, ma provenienti dalla porta accanto, alla ricerca di una soluzione. Lo stesso Bruce vivrà sulla sua pelle un cambio drastico in tema femminile: dal breve e fallimentare matrimonio con una donna dello star system, la modella Julianne Phillips, passerà al rapporto con una donna come lui proveniente dalla strada e dalla provincia, quella Patti Scialfa che gli darà tre figli, oltre a un fondamentale sostegno psicologico e umano.

L’IMPEGNO SOCIALE DI BRUCE SPRINGSTEEN

Se l’istinto verso la canzone a sfondo sociale era già evidente fin dai primi testi, Springsteen sviluppò la sua consapevolezza sociale e politica dalla fine degli anni ’70. L’incontro con Jackson Browne e i temi del rispetto del pianeta (culminato con la partecipazione ai concerti No Nukes del 1979) fu un passaggio forte. Ancora più rilevante fu la consapevolezza del fallimento americano, non solo nella guerra del Vietnam ma anche nel mancato sostegno ai veterani che tornarono da quel conflitto. Temi che rimarranno centrali nella produzione springsteeniana, anche quando Bruce canterà di Iraq e Afghanistan. Oltre al tema del sostegno alla classe proletaria, che lo consacrò working class hero, Springsteen ha affrontato temi rilevanti come l’immigrazione (soprattutto in The Ghost Of Tom Joad) e i diritti civili (Streets Of Philadelphia gli valse l’Oscar per la miglior canzone originale). Poi il sistema punitivo americano e la pena di morte (specie nel celebre Nebraska), il terrorismo e le sue conseguenze (in The Rising). Per tanto tempo Springsteen si è però  tenuto lontano dalla politica. Solo nel nuovo millennio è arrivato a sostenere attivamente le campagne elettorali degli antagonisti democratici di Bush Jr e di Trump.

SPRINGSTEEN E IL NUOVO DYLAN

La produzione discografica di Springsteen nacque sotto l’ombra di uno dei suoi più grandi mentori artistici, Bob Dylan. L’indicazione di Bruce come nuovo Dylan non derivò solo dall’indubbia influenza del menestrello di Duluth sulle sue prime composizioni, ma anche per una precisa logica di marketing della CBS. Per il suo talent scout, John Hammond, Springsteen doveva diventare il nuovo cantastorie americano, circa dieci anni dopo che lui stesso aveva scoperto Dylan. Il primo disco di Springsteen, Greetings From Asbury Park, N.J. (1973), nacque su questa impronta, ma non fu solo questo. In quelle canzoni con testi abbondanti di parole e immagini c’era un ragazzo di provincia che, mentre scorrazzava con gli amici e viveva i primi amori, coltivava la passione per la musica. Il rock lo aiutava a ribellarsi e a volare in un universo parallelo, ma gli consegnava anche le chiavi di accesso a New York, di cui dipinse i primi schizzi, come un artista ancora inesperto ma talentuoso (It’s Hard To Be A Saint In The City mostra talento puro). Emerse intanto, con Lost In The Flood, anche il primo Springsteen socialmente consapevole. Mentre gran parte dell’album presentava suoni e arrangiamenti scarni e acustici, Spirit In The Night e Blinded By The Light spostavano il sound verso una maggiore idea di band, soprattutto con l’ingresso nello studio di registrazione di Clarence Clemons e del suo sassofono. Elementi che saranno fortemente caratterizzanti nel sound springsteeniano.

THE WILD, THE INNOCENT E… LA E STREET BAND

L’album che rappresentò la vera genesi della E Street Band fu The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle (1973). Springsteen vinse due battaglie in una con la CBS: affrancarsi definitivamente dall’idea del nuovo Dylan e continuare a incidere con i suoi amici musicisti. Se 4th Of July, Asbury Park (Sandy) e Wild Billy’s Circus Story sembravano ancora legate alle sonorità del primo album, nelle altre canzoni Bruce cercò un proprio sound, una fusione tra il soul e il rock, con richiami swing ed elementi orchestrali, sfruttando la presenza di musicisti eclettici come il pianista David Sancious e lo stesso Clarence Clemons. Musicalmente fu importante l’influenza di Van Morrison, mentre sul lato lirico fu ancora forte l’influenza dylaniana. Tante azioni e immagini si condensavano in testi lunghi e complessi, come copioni di cortometraggi, in cui il giovane cantautore mostrava un enorme talento narrativo (su tutte Incident On 57th Street e New York City Serenade). Alcuni brani rimanevano ancorati alla provincia di provenienza, ma c’erano anche episodi di vita giovanile nella metropoli, nei quali si formavano coppie di ragazzi che provavano a sopravvivere, ma sognavano, disordinatamente e senza successo, di togliersi dalle morse di una esistenza da predestinati al fallimento. Molto significative nei temi 4th Of July, Asbury Park (Sandy), nella quale è presente un primo invito a una ragazza ad andarsene da una città che limita e inibisce, e Rosalita (Come Out Tonight), nella quale il giovane musicista dichiara la sua forte aspirazione a sfondare nel rock.

SPRINGSTEEN CAMBIA

Nel 1974 Springsteen iniziò a lavorare al terzo album senza nemmeno sapere se la CBS ne finanziasse la pubblicazione. Furono sessioni di registrazione massacranti, condizionate da alcune fondamentali novità. Il giornalista Jon Landau entrò nella produzione dell’album, inaugurando una collaborazione tra le più prolifiche della storia del rock. Inoltre il batterista Vini Lopez e il pianista David Sancious vennero sostituiti rispettivamente da Max Weinberg e Roy Bittan. L’impatto di Landau, Weinberg e Bittan si fece sentire. Il manager convinse Springsteen a cercare un sound più compatto, un muro del suono più possente, anche a scapito dei virtuosismi dei singoli musicisti, e meno succube delle “folate anarchiche” di Lopez. Weinberg, batterista potente ma disciplinato, fu perfetto in questa logica, così come Bittan, eccellente pianista rock, portò più quadratura rispetto a un tastierista eclettico di estrazione jazz come David Sancious. Born To Run (1975) fu musicalmente il risultato di questa transizione.

NATO PER CORRERE

Springsteen lavorò a Born To Run non solo con l’obiettivo di togliersi dalle sabbie mobili dell’insuccesso, ma nell’idea di scrivere un disco epico, di svolta totale. L’unica canzone che venne tenuta nella registrazione originaria (con Sancious al pianoforte e Ernest Boom Carter alla batteria) fu proprio la canzone Born To Run. Tutte le altre, a cominciare da Thunder Road (originariamente concepita come Wings For Wheels), furono registrate con la nuova E Street Band. Fece eccezione Meeting Across The River, suonata da due musicisti esterni insieme a Roy Bittan. Sul lato lirico i richiami ai primi due album erano molto forti, ma c’era maggiore consapevolezza. Born To Run e Thunder Road ripresero l’invito a una ragazza di andarsene ma lo fecero in modo più determinato. Tenth Avenue Freeze-Out  celebrava la E Street Band e l’impatto di Clarence Clemons sulla musica di Springsteen, mentre Backstreets ritornava in modo più drammatico e adulto sulle amicizie vissute ad Asbury Park. Meeting Across the River e Jungleland riprendevano le storie di (mala)vita da bassifondi già cantate nei grandi affreschi metropolitani presenti nel secondo album. In Night apparve per la prima volta un ragazzo che lavora, l’operaio che cerca nella notte una liberazione dall’alienazione. She’s The One, infine, mostrava per la prima volta una donna forte ed emancipata rispetto alle ragazze selvagge ma vulnerabili dei primi due album. Fu un grande successo, Bruce aveva spiccato il volo.

C’E’ BUIO NELLA PERIFERIA DELLA CITTA’ DI BRUCE SPRINGSTEEN

Le promesse e le aspirazioni di Born To Run si infransero nella durezza di Darkness On The Edge Of Town (1978), le cui canzoni furono scritte, insieme ad altre decine che vennero scartate, mentre Springsteen era in causa con il suo primo manager, Mike Appel, per il controllo sulla propria opera. La rabbia accumulata portò Springsteen a prediligere canzoni dai temi più amari. La fuga per la vittoria di Thunder Road e Born To Run si era scontrata con gli errori individuali e con un sistema sociale che respingeva verso il basso. Darkness On The Edge Of Town, le cui sonorità e arrangiamenti musicali venivano smorzati rispetto alla solennità di Born To Run, fu concepito nei temi come l’album perfettamente simmetrico. Badlands e The Promised Land mostrano uomini che lottano per ribellarsi alla disillusione. Adam Raised a Cain e Factory inaugurano la serie di canzoni dedicate al difficile rapporto con il padre. Something In The Night e Streets Of Fire cantano di ragazzi che soccombono in strada nel vuoto delle loro vite. Candy’s Room e Prove It All Night ritagliano nella disperazione un angolo dove trovare rifugio tra le braccia di una ragazza. Racing In The Street e la title track presentano piloti di auto che pagano il prezzo dei loro errori.

BRUCE SPRINGSTEEN: UN FIUME IN PIENA

Mentre il Darkness Tour consolidò l’ascesa di Springsteen nel panorama rock americano, il musicista si ritrovò con decine di canzoni già scritte, in molti casi già registrate. Era un fiume in piena e ne continuava a scrivere di nuove. The River (1980) non poté che nascere come doppio album, 20 canzoni che vennero selezionate con un duplice obiettivo. Da un lato concepire il disco come un compendio di rock con le sue differenti influenze, dal folk al country, dal blues al soul, dalla canzone melodica al rock duro. Una sorta di opera enciclopedica di tutto quello che erano stati il grande fiume del rock e i suoi mille rivoli dagli albori degli anni ’50 fino agli anni’ 70. Sul lato tematico Bruce uscì da una logica individuale (negli album precedenti le figure femminili erano a corollario delle vicende di giovani uomini come lui) e abbracciò l’idea della coppia che diventa famiglia. In The River Springsteen indagò sull’amore, ora più maturo: l’innamoramento, il sesso, i progetti, il matrimonio, i figli, i problemi di coppia, l’influenza della società sui rapporti, i fallimenti. Un quadro meraviglioso con alcuni capisaldi lirici, come fossero i titoli dei capitoli di un libro. The Ties That Bind stabilì l’importanza dei legami che uniscono le persone. Two Hearts definì la rilevanza dell’amore per superare le difficoltà della vita. Hungry Heart sancì una verità assoluta: l’uomo non è stato concepito per restare solo. The Price You Pay individuò nella consapevolezza dei propri errori la condizione per ripartire. The River e Point Blank entrano infine nella leggenda per la loro indiscussa bellezza.

SPRINGSTEEN SCAVA NEGLI ABISSI DELL’ANIMA

Dopo l’imponente tour di The River, Springsteen stava scrivendo nuove canzoni per l’album che doveva rappresentare la sua consacrazione nel firmamento del rock. Con la chitarra e pochi altri strumenti acustici si chiuse in casa per fissare su un piccolo registratore le tracce da portare poi in studio di registrazione. Erano in parte brani folk, ma anche pezzi rockabilly e blues pensati per versioni full band. Nel frattempo Bruce lesse molto e guardò tanti film, attratto in particolare dai temi trattati dal cinema neorealista e, prima ancora, da scrittori come John Steinbeck e Flannery O’Connor. Le canzoni che ne scaturirono facevano emergere l’impatto dell’iniquità delle istituzioni americane sulla vita della gente, dall’indigenza alla frustrazione, dalla disperazione alla violenza. Canzoni molto dure, accompagnate da musica scarna ed essenziale. Springsteen e Landau intuirono che quelle versioni acustiche, pur con i loro difetti di registrazione, non andassero rielaborate. Nacque così Nebraska (1982), un album tanto inatteso quanto travolgente, considerato uno dei capolavori assoluti di Springsteen, che girò anche la sua prima videoclip, peraltro bellissima, sul brano Atlantic City.

NATO NEL MONDO: LA STAR

L’album che portò Springsteen in cima al mondo (Born In The USA, 1984) fu paradossalmente figlio di Nebraska, il suo album meno commerciale. In particolare la title track e Downbound Train nacquero acustiche, desolate e rabbiose nel periodo di Nebraska. Altre canzoni dell’album furono scritte in quel periodo, ma riarrangiate in una versione rock, trovando collocazione in uno dei dischi più venduti di tutti i tempi (con ben 7 singoli estratti). Se musicalmente Born In The USA fu un album di svolta artistica, nel quale Springsteen per la prima volta inserì l’utilizzo di sintetizzatori, sul lato lirico il disco confermò il profilo oscuro di Nebraska, trovando però anche episodi di maggiore leggerezza pop-rock, anche quando il significato di fondo rimaneva dolente. La title track divenne una delle canzoni più malintese della storia del rock: la dura accusa a una nazione che abbandonava i suoi figli tornati dal Vietnam fu scambiata da molti per un inno patriottico. Fecero poi storia a sé Bobby Jean e No Surrender, canzoni che Springsteen scrisse in occasione dell’addio alla band di Stevie Van Zandt per celebrare l’amicizia e la collaborazione con il chitarrista e con gli altri componenti della band.

SPRINGSTEEN E I TUNNEL DELLA VITA

In quegli anni Springsteen visse due situazioni opposte. Il successo sul lato professionale fu repentino e dirompente, al punto che Bruce fu star di primo richiamo nel progetto USA For Africa e nel successivo tour Human Rights Now! La sfera privata, invece, si fece turbolenta con il fallimento del matrimonio con Julianne Phillips. Tunnel Of Love (1987) fu il risultato di quel periodo tormentato. Da un lato la raggiunta ricchezza (l’opulenza di Ain’t Got You, la serata galante di Tougher That The Rest, i luccichii di Tunnel Of Love, l’agiatezza nei cui meandri si sviluppano i tradimenti in Brilliant Disguise), dall’altro le sofferenze amorose e le insicurezze personali (gran parte del lato B verte su questo tema). Le relazioni sentimentali non hanno più come protagonisti giovani uomini e donne che fronteggiano situazioni ostili alla ricerca di una soluzione, ma lo stesso Bruce e il suo complesso menage sentimentale. Solo due canzoni riportano il musicista nella veste di storyteller: l’elettrica e appassionata Spare Parts e la semiacustica Cautious Man, nella quale comunque Bruce si maschera dietro il suo protagonista. Fu un altro disco di svolta. Non tanto per la conferma dei suoni elettronici (in cui i sintetizzatori accompagnano le chitarre in un album basicamente acustico nella totale assenza di pianoforte e sassofono), ma soprattutto per l’utilizzo del tutto marginale della E Street Band. Sarà l’anticamera di un inatteso e sofferto addio.

BRUCE RESTA AGGRAPPATO ALLA PROPRIA VITA

Gli anni a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90 furono determinanti per Springsteen. Anni difficilissimi che, però, sfociarono in una rinascita. Tante rockstar, in coda al successo e ai disordini personali e relazionali che spesso ne conseguono, avevano perso il controllo sulla loro vita e sulla loro arte. Bruce, per preservare quel controllo, evitò gli eccessi di alcol, droghe e lusso, ma pagò con una profonda crisi depressiva che ancora oggi sta curando. Per non diventare schiavo di un’immagine artefatta di se stesso e mantenere un’identità, licenziò clamorosamente la E Street Band, i musicisti/amici di sempre, e si rifugiò in una nuova relazione sentimentale con la sua corista, Patti Scialfa. Nel giro di pochi anni Patti divenne moglie di Bruce e madre dei tre suoi figli. Se le scelte artistiche destabilizzarono la nutritissima platea di fan distribuiti in tutto il mondo, l’assestamento nella vita privata e il temporaneo diradamento della presenza sui palcoscenici furono un salvavita per un uomo così deciso a mantenere salde le redini sulla sua esistenza, senza soccombere all’estraniante “vapore roseo” dello star system.

IL CONTATTO UMANO DI SPRINGSTEEN NELLA CITTA’ DELLA FORTUNA

Dopo cinque lunghi anni Springsteen pubblicò due album in contemporanea, Human Touch e Lucky Town (1992). Due gemelli diversi che in comune hanno solo l’assenza della E Street Band. Per Human Touch Springsteen chiamò in studio grandi session-men e confezionò un album forse meno sincero, ma musicalmente ineccepibile, nel quale Bruce mostrò di cavarsela egregiamente anche con quel pop-rock più patinato. Il tema dominante diventava l’amore nel suo lato più romantico e passionale. I problemi non nascevano più da difficoltà economiche o da sogni infranti, ma nell’intimo della coppia: l’innamoramento, la seduzione, la gelosia, il tradimento, le liti e gli addii. Lucky Town fu invece suonato per gran parte da uno Springsteen ormai polistrumentista. Un album più acustico e tradizionale, tra il country, il folk e il rock, denso di ballate che inneggiano alla nuova frontiera di vita, la città della fortuna che Bruce aveva scoperto in quegli anni: l’unione matrimoniale, il focolare domestico, persino la paternità che lui stesso ha definito la prova vivente (Living Proof) della misericordia divina. Bruce decise così di godersi la sua beautiful reward, la sua bella ricompensa. Nel tour promozionale dei due album Springsteen fu accompagnato da una band multietnica e con diverse musiciste femminili, il cui unico elemento di continuità con il passato fu il tastierista Roy Bittan.

IL FANTASMA DI TOM JOAD: L’IMMIGRAZIONE E IL RITORNO AL SOCIALE

A metà degli anni ’90 Springsteen sentì l’esigenza di tornare a scrivere delle contraddizioni dell’America e individuò nell’immigrazione il tema dominante di cui cantare. Dopo anni tornò a immedesimarsi nelle persone che cercano una terra promessa, ma non più nell’ottica del ragazzo in cerca di risposte, bensì dell’uomo in cerca di dignità. Messicani, cubani e sudamericani, specie nel sud-ovest americano, rischiano la vita per cercare cibo e un futuro per sé e per la propria famiglia. La stessa cosa che fecero gli americani stessi un secolo prima spostandosi verso l’Eldorado. Bruce trovò ispirazione dal migrante per eccellenza nella letteratura americana: quel Tom Joad che Steinbeck narrò in Furore. The Ghost Of Tom Joad (1995) nacque da quell’intuizione. Dopo quasi sessant’anni i nipoti ideali di Joad si trovavano ancora nelle sue stesse condizioni. E con loro tanti migranti che, sognando una vita dignitosa nella terra dell’oro, trovavano solo barriere, iniquità e soprusi, attratti dalla delinquenza e dai traffici di droga che offrivano loro almeno un sostentamento. L’album verrà da molti accostato a Nebraska, anche per il suo carattere prevalentemente acustico. In realtà il sound è differente poiché in molte canzoni ci sono una base ritmica, la pedal steel guitar e le tastiere. Per promuovere il disco Springsteen suonò per la prima volta in solitario nei teatri, abbandonando arene e stadi.

L’OSCAR E GLI INEDITI: SPRINGSTEEN E’ LA STELLA

Gli anni ’90 furono il decennio artisticamente meno prolifico per Springsteen. Solo tre album di inediti, di cui due lanciati contestualmente. In realtà Bruce fece parlare molto di sé. Nel 1993 con Streets Of Philadelphia, una canzone sorprendentemente atipica ma incredibilmente bella, si aggiudicò l’Oscar per la miglior canzone originale nella colonna sonora del film Philadelhia di Jonathan Demme. Nel 1995 pubblicò la sua prima raccolta, un Greatest Hits che in realtà raccoglieva anche alcuni inediti, registrati in una prima reunion in studio con la E Street Band. Tra queste, Blood Brothers era un nuovo inno all’amicizia con i suoi storici musicisti. Nel 1998 uscì la monumentale raccolta Tracks (seguita da una versione limitata denominata 18 Tracks) che comprendeva 66 inediti (o versioni alternative di brani già noti) registrati in 25 anni di carriera. Il popolo springsteeniano poteva finalmente ascoltare in versioni rimasterizzate canzoni (spesso veri e propri gioielli) che in precedenza aveva potuto ascoltare su bootleg, spesso di bassissima qualità. Ci si rese conto di quanto materiale di elevato livello artistico Bruce aveva scartato negli anni. Tracks fu anche la prima di una serie di raccolte con inediti e versioni alternative. Altre arriveranno con The Essential Bruce Springsteen (2003), Greatest Hits vol. II (2009), Chapter and Verse (2016), oltre che nei cofanetti celebrativi di Born To Run (2005), Darkness On The Edge Of Town Story (2010) e The River (2015).

CADONO LE TORRI GEMELLE: BRUCE DIVENTA IL PALADINO

Tra il ’99 e il 2000, chiarite le incomprensioni, i vecchi amici della E Street Band, compreso Stevie Van Zandt, si unirono a Bruce per una colossale tournée, denominata proprio Reunion Tour. Mentre suonava sui palcoscenici di mezzo mondo, Springsteen cercava l’ispirazione per scrivere nuove canzoni. Alcune erano già finite sul taccuino, ma non c’era materiale a sufficienza per un album. La tragedia del 11 settembre 2001, però, sconvolse il musicista al punto che le canzoni iniziarono a fluire dalla sua penna, mentre assisteva inerme ai piccoli grandi drammi che vivevano migliaia di famiglie americane, anche nel suo New Jersey. The Rising (2002) venne alla luce con questa strana genesi e singolarmente alcune delle canzoni scritte in precedenza sulla decadenza e sugli sconvolgimenti sociali, culturali e demografici della sua terra, si sposarono benissimo con i brani scritti in seguito all’attentato terroristico. Bruce fu abile a non cadere nella retorica e non scrivere testi di manifesto politico. Scrisse anzi capitoli toccanti sulla sofferenza delle persone comuni in case dove erano improvvisamente mancati un familiare, un amico, un compagno di vita. The Rising, album molto eterogeneo sul lato musicale, dal soul al pop elettronico, dal rock ruvido alla ballata semi-acustica, inaugurò la collaborazione di Springsteen con Brendan O’Brien. Bruce rappresentò il cantore principale di quella tragedia e delle sue conseguenze, forte della credibilità e della stima che in tanti riponevano in lui.

LE PAURE E I DEMONI DELL’AMERICA

La parentesi rock di The Rising e del Reunion Tour non distolse Springsteen dall’esigenza di scrivere canzoni acustiche, intime, da suonare in spazi chiusi e di dimensione limitata. Devils&Dust (2005) fu considerato il terzo capitolo della trilogia (semi)acustica di Bruce (dopo Nebraska e The Ghost Of Tom Joad) e racchiuse in sé alcuni dei temi che l’artista aveva già affrontato nella sua lunga carriera. Troviamo la guerra nella title track (per la prima volta vista, però, dalla visuale del soldato in battaglia e non del veterano), c’è la voglia di famiglia e di un amore maturo (come nelle deliziose Long Time Coming, Maria’s Bed e Leah), ci sono storie di drammi familiari e di persone in fuga (specie in Black Cowboys, Silver Palomino e The Hitter), c’è ancora la sciagura dell’immigrazione (nella commovente Matamoros Banks). Il tour di Devils&Dust tornò a presentare Bruce solo sul palco, tra chitarre e pianoforte, nella veste di una sorta di fratello minore di Johnny Cash, questa volta però di ritorno nelle arene e non negli angusti spazi di un teatro.

I TRUCCHI E LE ILLUSIONI DI BUSH: LO SPRINGSTEEN PIU’ ARRABBIATO

Nel nuovo millennio Springsteen stava cercando un approccio artistico più coinvolto nella politica, partecipando perfino attivamente alla sfortunata rincorsa alla Casa Bianca del candidato democratico John Kerry (Vote For Change – 2004). Profondamente avverso alla linea conservatrice e guerrafondaia di George W. Bush Jr., nel 2007 pubblicò il suo album più esplicitamente politico di sempre, nonostante il titolo apparentemente leggero: Magic. Una magia priva di accezioni positive, ma sinonimo di trucco, incantesimo, inganno. Senza che venisse mai citato, su tutto l’album aleggiava l’ombra di Bush, dipinto come un abile prestigiatore che mistificava la realtà (Magic), che compiva errori sulla pelle dei soldati in guerra (Last To Die), che illudeva la gente sul futuro con facili promesse (Living In The Future). Intanto l’America si sfaldava. Alcuni soldati tornavano in una bara (Gipsy Biker), altri non riuscivano a reintegrarsi nella società, persino nella loro famiglia (Devil’s Arcade). Le persone non sapevano più comunicare, i media trasmettevano solo spazzatura (Radio Nowhere) e la propria terra d’origine cambiava faccia, al punto di diventare irriconoscibile (Long Walk Home). Un quadro a tinte nere in cui non mancavano perfino i cadaveri penzolanti dagli alberi. Un Bruce incazzato che, sul lato lirico, scrisse pagine decisamente sottovalutate della sua narrativa. La produzione musicale di Brendan O’Brien portò Springsteen verso un suono più ruvido, un ritorno al muro del suono in cui le chitarre, gli organi e il sax si mescolano in un ensemble decisamente sporco, a volte confuso, quasi grunge.

SPRINGSTEEN LAVORA PER UN SOGNO

Bastarono due anni, dal 2007 al 2009, per cambiare le prospettive di uno Springsteen molto attento all’evoluzione socio-politica della sua nazione. Il giro di boa avvenne nell’autunno del 2008, quando Barack Obama vinse le elezioni americane, ponendo fine all’era Bush. Nel gennaio 2009, nove giorni dopo l’insediamento di Obama, Bruce lanciò Working On A Dream, album che già nel titolo esprimeva la speranza dell’artista in una nuova epoca di giustizia sociale e di benessere diffuso. In realtà il disco non trattava temi socio-politici: lo stesso Bruce lo descrisse come una perlustrazione dell’amore e dei sentimenti tra l’oscurità dell’era Bush e la nuova alba obamiana. Ma, singolarmente, i momenti topici dell’album rimarranno quelli meno legati al tema centrale dell’album. Outlaw Pete è un’intensa storia western sul sottile confine tra il bene e il male con un evidente omaggio a Ennio Morricone. The Last Carnival è la commossa dedica all’amico tastierista Danny Federici, il primo E-Streeter a morire nel 2008. The Wrestler è la canzone originale, vincitrice di un Golden Globe, che Bruce scrisse per il film omonimo. O’Brien, nel terzo e ultimo episodio della sua collaborazione con Springsteen, spostò il focus del suono verso sonorità più acustiche, ispirate al country e al folk, anche se con un approccio decisamente pop. Fanno eccezione l’episodio blues “old style” di Good Eye e le ballate acustiche di The Last Carnival e The Wrestler.

LA RABBIA DI BRUCE SPRINGSTEEN

Nel 2012 Springsteen continuava a essere arrabbiato. Stimava Obama, con il quale stava nascendo una profonda affinità, ma non voleva appiattirsi sull’autorevole amicizia, fingendo di ignorare le ingiustizie ancora dilaganti nel sistema americano. Nell’album Wrecking Ball l’ira dell’artista si abbatté sulla finanza dei banchieri e degli squali di Wall Street, colpevoli di ingrassare le proprie pance e i propri portafogli sulle spalle della gente, perfino durante una crisi generata dalle loro stesse spinte speculative. Tra le peggiori conseguenze di quella crisi, Springsteen vide il crescente egoismo che portava le persone a curarsi del proprio orticello (We Take Care Of Our Own), senza considerare l’aiuto agli altri. A fare da contrappeso, però, inserì nell’album una canzone scritta anni prima, Land Of Hope And Dream, in cui l’amore e l’amicizia si trasformano in un inno all’inclusione degli ultimi e degli emarginati. Anche chi è morto per cause nobili aiutano nella nuova battaglia (We Are Alive). Non mancarono riferimenti personali (l’autobiografica This Depression) e lo sfogo rabbioso causato dalla demolizione del Giants Stadium (Wrecking Ball), dove Bruce aveva tenuto tanti concerti. In un album caratterizzato da due bonus tracks e dall’esordio alla produzione di Ron Aniello, i suoni tornarono più classici, un rock con influenze country, gospel e folk irlandese, con persino una sorprendente parentesi rap in Rocky Ground. Nei crediti si contano quasi 40 contributi, tra coristi, fiati, archi e musicisti “occasionali”. Fu comunque presente il nucleo della E Street Band, con due clamorose assenze (Roy Bittan e Garry Tallent) e un’emozionante presenza (Clarence Clemons, morto nel 2011, suonò nelle sovraregistrazioni postume di Wrecking Ball e Land Of Hope And Dreams).

BRUCE TRA COVER E VERSIONI ALTERNATIVE

Nel 2014 Springsteen pubblicò High Hopes, un album atipico per la sua eterogeneità e per l’assenza di un tema dominante. Per la prima volta Bruce, più che produrre un capitolo del suo grande romanzo americano, raccolse una serie di idee che aveva sviluppato nel tempo ma lasciato in disparte. Delle dodici canzoni del disco, tre sono cover e una di queste (High Hopes) dà addirittura il titolo all’album. Una scelta singolare, se operata da uno dei più grandi cantautori rock. Le “grandi speranze” si riferiscono alla conferma dell’amministrazione Obama per un secondo mandato. The Ghost Of Tom Joad è la versione rock del suo capolavoro acustico. American Skin (41 Shots) era già stata suonata dal vivo da diversi anni, ma non aveva una registrazione ufficiale in studio. Tutte le altre canzoni inedite erano già state scritte (e in alcuni casi registrate) nel periodo tra The Rising e Wrecking Ball. Alcune erano vere e proprie outtakes, altre erano rimaste sul taccuino degli appunti di Bruce. Questa atipicità, che rende High Hopes più una raccolta di inediti che un album classico, non toglie rilevanza ad alcuni brani. The Wall torna sulla guerra del Vietnam in memoria dei suoi vecchi amici mai tornati, Hunter Of Invisible Game ospita un’inedita visione post-apocalittica, American Skin è il coraggioso atto di accusa verso la giustizia più violenza. Data l’eterogeneità anche cronologica, le canzoni di High Hopes furono registrate nel tempo con la partecipazione dei diversi componenti della E Street Band (incluso il defunto Clarence Clemons), ma anche di musicisti esterni, tra cui Tom Morello, leader dei Rage Against The Machine, che partecipò anche al tour che promosse l’album.

SPRINGSTEEN DIRETTORE D’ORCHESTRA

La passione per i film e per le loro colonne sonore, specie per quelle composte da Ennio Morricone, svilupparono in Springsteen il desiderio di scrivere musica che si adattasse ad arrangiamenti d’orchestra. Dopo che in alcune occasioni (celebri quelle romane) aveva ospitato una formazione orchestrale sul palco per la splendida New York City Serenade, Bruce decise che era giunto il momento. Convocò al suo ranch di Colts Neck un’intera orchestra e con essa arrangiò le canzoni di Western Stars, il suo album del 2019. Ottoni, legni e soprattutto archi entrarono insieme alle chitarre, al pianoforte e all’organo in un sound che fondeva l’epica delle grandi colonne sonore western con le sonorità pop melodiche in voga negli anni ’70. Un risultato affascinante, soprattutto perché abbinato a testi tra i migliori della sua carriera. Tutto ruota intorno alla figura dello stesso Bruce, invecchiato ma ancora in movimento. La crepuscolare Hello Sunshine è quanto di più onesto e profondo lui potesse scrivere di se stesso. Ma anche quando scrisse di altri personaggi, dall’autostoppista di Hitch Hiker al viandante di The Wayfarer, dal vecchio attore decaduto della title track allo stuntman mezzo rotto di Drive Fast, e ancora ai personaggi solitari di Chasing Wild Horses, Stones, Somewhere North Of Nashville, Sundown, There Goes My Miracle e Moonlight Motel, in fondo parlava di se stesso. Della sua tendenza alla solitudine, della sua inquieta e affannosa ricerca di qualcosa, tra errori e salvifici ritorni a casa. Con Western Stars Bruce tornò al suo splendore lirico, l’ennesimo capitolo di un fenomeno poetico e letterario con pochi eguali.

SPRINGSTEEN CANTA DELLA VECCHIAIA E DELLA MORTE

Nel 2020 Springsteen stupì tutti ancora una volta. Chiamò all’adunata i vecchi amici della E Street Band, compresi Charles Giordano (tastierista che dal 2009 sostituì il compianto Danny Federici), Jake Clemons (che subentrò allo zio Clarence dopo la sua scomparsa del 2011) e dell’ormai fissa Soozie Tyrell. Solo loro, nessun musicista aggiuntivo. Da quelle sessioni nacque Letter To You, un altro album molto autobiografico, nel quale Bruce approcciò un argomento difficile: la morte. Colpito dall’essere rimasto l’ultimo superstite della sua prima band (da qui la canzone Last Man Standing), Springsteen si interrogò sul significato della morte, ora che non riguardava più solo i suoi personaggi, ma gli passava così vicina. Dall’iniziale One Minute You’re Here all’oscura Burnin’ Train, dall’eterea House Of A Thousand Guitars alla rockeggiante Ghosts e alla tenera I’ll See You In My Dreams, l’alone della Signora Nera ammanta i versi con nuova grandezza lirica. Bruce trovò anche spazio per rivolgersi con gratitudine al suo pubblico, sia tramite Letter To You, un intenso testamento musicale e umano, sia con tre perle rarissime risalenti ai primi anni di carriera che Bruce e la band hanno riprodotto con il classico E Street sound: Janey Needs A Shooter, If I Was The Priest e Song For Orphans. Anche il resto dell’album, dopo anni di esperienze in diverse sonorità e generi musicali, è fortemente improntato sul suono più distinguibile della E Street Band.

LE COVER DI SPRINGSTEEN

Nonostante la sua indole cantautorale in due occasioni Springsteen ha registrato e pubblicato due album puri di cover. Il primo, We Shall Overcome: The Seeger Sessions (2006), rendeva omaggio a Pete Seeger quale icona della musica popolare americana. Il disco, nel quale Springsteen fu accompagnato da una band country-bluegrass, comprensiva di sezioni di fiati e di cori, raccoglieva alcune canzoni scritte da Seeger, ma soprattutto canzoni della tradizione popolare che Seeger aveva interpretato. L’album fu promosso con un tour mondiale con la stessa Seeger Sessions Band, nella quale militavano anche Patti Scialfa e Soozie Tyrell, già componenti della E Street Band, e Charles Giordano, che sarebbe poi entrato nella band al posto del defunto Danny Federici. Il secondo album di cover è stato pubblicato nel 2022. In Only The Strong Survive Springsteen ha selezionato 15 canzoni da un vastissimo repertorio soul (dai primi anni ’60 fino a metà degli anni ’80), reinterpretandole in collaborazione con l’ormai fedele produttore e musicista Ron Aniello, Sam Moore e altri session-man. Oltre a questi due album, Bruce ha partecipato negli anni a diversi album tributo ad altri artisti, tra cui si ricordano quelli per Pete Seeger, Johnny Cash, Woodie Guthrie e Ennio Morricone.

IL MITO DI SPRINGSTEEN IN CONCERTO: I DISCHI LIVE

Un musicista che ha fatto dei suoi concerti leggendarie maratone rock non poteva non pubblicare alcuni dischi live, che hanno affiancato le centinaia di registrazioni pirata in circolazione. Il Live 1975/85 (1986) raccolse il primo decennio di concerti di Springsteen, un cofanetto che fu benedetto dai milioni di nuovi fan dell’epoca, ma fece storcere il naso a chi già lo conosceva, soprattutto per l’assenza di alcune canzoni nelle location più celebri. Seguì In concert MTV Plugged (1993), suonato con la band alternativa che accompagnò Bruce nel tour di Human Touch e Lucky Town. Il Live In New York City (2001) fu invece il coronamento del Reunion Tour, che segnò il ritorno della E Street Band al fianco del Boss. Poi, in occasione del lancio del cofanetto celebrativo di Born To Run (2006) arrivò l’attesissima registrazione del concerto al Hammersmith Odeon di Londra nel 1975, il primo di Bruce fuori dagli USA. Con la Seeger Sessions Band Springsteen promosse un tour che si sublimò nel bellissimo Live In Dublin (2007). Springsteen On Broadway, lo spettacolo autobiografico che Bruce tenne al Walter Kerr Theatre di New York, fu fissato nell’omonimo disco live del 2018. Bruce ha poi pubblicato nel 2021 The Legendary 1979 No Nukes Concerts, i celebri concerti che tenne insieme ad altri musicisti contro l’uso dell’energia nucleare. Dal 2014, infine, Springsteen distribuisce dal suo sito ufficiale diversi concerti registrati sia nei tour più recenti, sia durante i tour storici. L’iniziativa stata denominata Archive Series.

BUONA NAVIGAZIONE

Non è stato facile riassumere 50 anni di carriera di un grande musicista e cantautore come Bruce Springsteen in mezz’ora di lettura. Da questo articolo di presentazione potrai collegarti tramite i tanti link ai singoli album man mano che li recensirò. E da lì a tutte le canzoni. Seguimi in questa grande e lunga avventura. Inizia a farlo, leggendo i tanti articoli che ho già scritto. Lo puoi fare partendo da qui, oppure tramite il menu delle categorie in alto a destra o ancora tramite l’archivio degli articoli in fondo a questa pagina. Se vuoi essere avvisato di tutti gli articoli che pubblico, iscriviti alla mia newsletter. E’ molto semplice: basta indicare il tuo nome e il tuo indirizzo e-mail nell’apposito box in fondo ad ogni pagina del sito. E poi non dimenticare che questo è un blog, ossia un luogo dove interagire con commenti, domande, segnalazioni, curiosità, aneddoti da raccontare. Ti aspetto.

 

Dario Migliorini

 

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