2496. Un numero alto, troppo alto. Sì, perché da quel 16 luglio 2016 al Circo Massimo di Roma sono trascorsi 2.496 giorni. A far conto dal 1985, anno del suo primo concerto italiano, è stato il periodo più lungo di attesa di un concerto di Bruce Springsteen in Italia. Scherzi della pandemia, non certo dell’età di Bruce che avanza. Perché Springsteen sul palco ci salirebbe tutti i giorni. E su un palco italiano aggiunge quel piccolo senso di appartenenza, quella sensazione di casa, lontana nella distanza, ma molto vicina nel cuore.

Springsteen l’italiano

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Bruce ha raccontato che la sua passione per la musica proviene dalle nostre latitudini, da una madre con profonde radici italiane. Quella Adele che con le sue sorelle esorcizzava la durezza della vita cantando e ballando ogni volta che poteva. Quella Adele che, anche contro le chiusure del marito Doug, aveva regalato al piccolo Bruce una chitarra (perché una batteria costava troppo…).
Quel sangue italico ieri è tornato a scorrere vorticoso nelle vene di un Bruce Springsteen certamente invecchiato, come del resto succede (per fortuna) a ognuno di noi, ma ancora incredibilmente disposto a urlare “PRESENTE!” alla chiamata del rock’n’roll.

Ferrara accoglie Bruce Springsteen (leggi l’articolo)

Ferrara, gioiello emiliano dalle piccole dimensioni ma dalla storia millenaria, ha accolto Bruce Springsteen con il calore che queste terre sanno emanare. E con lui gli oltre 50.000 tramps accorsi nel polmone verde cittadino, quel Parco Bassani motivo di (troppe) polemiche, ma alla fine capace di una umida ma fervida ospitalità. Un popolo che ha saputo ordinatamente e pazientemente sopportare nel fango i ritardi dell’ingresso all’area del concerto, ma che poi è stato ripagato abbondantemente dall’energia straripante del Boss. 

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Si comincia!

Dopo le intriganti performance di Fantastic Negrito (che browniana voce!) e di Sam Fender (che giovane classe!), Bruce è salito sul palco alle 19.40 con una E Street Band già schierata a battaglia. Nella fodera non gli odiosi proiettili di una guerra che DEVE finire, ma vibrazioni che non hanno perso intensità dopo 50 anni appena compiuti di storia del rock. Ferrara esulta e con lei un pubblico che raccoglie bambini e nonni, genitori e figli, forse anche le puttane, gli scommettitori e le anime perdute di quella che diventa immediatamente la terra della speranza e dei sogni.

 

Una scaletta non casuale

Il primo “tutti a bordo” è assegnato da Bruce all’amatissima No Surrender. In una scaletta che, almeno fino a Last Man Standing, è dettata come non mai dai significati, più che da scelte strettamente musicali, con il brano del 1984 Bruce ci urla che lui e i suoi fratelli di sangue non si sono arresi, con le loro batterie e le loro chitarre. Segue una scaletta che qualcuno critica per l’eccesso di staticità (uff… quante polemiche tra social e media!), ma che non tutti hanno colto nel suo significato più profondo, che si può riassumere grosso modo così: “Ehi, siamo ancora qui, ci diamo dentro, siamo ancora capaci di fare quello per cui siete venuti qui, nonostante si avvicini l’epilogo e qualche caro amico ci abbia già lasciato. Ma queste badlands vi stanno trattando ancora male e siamo ancora qui a spronarvi a lottare. E non fate mai mancare la musica: se non vi cambierà la vita, almeno vi allieterà nel tragitto.” Ditemi, non è così?

Il testamento di Bruce

Dopo No Surrender, una dedica agli amici ancora vivi, arriva Ghosts, la dedica agli amici che se ne sono andati troppo presto ma che, come i fantasmi, fanno sentire ancora la loro presenza. Di lì a poco arriveranno Letter To You, l’accorata missiva, quasi un testamento tra vivi, che Bruce invia a tutti i suoi ammiratori (“ho preso tutta la mia felicità e il mio dolore e li ho spediti in questa lettera a voi”) e The Promised Land, nella quale l’uomo, nonostante l’età e il tempo trascorso, riconosce ancora quelle nuvole scure in avvicinamento, ma urla la sua volontà di spazzare via tutto ciò che non ha la fede di occupare il proprio posto su questa terra.

Ladies and Gentlemen: la E Street Band

In quel contesto Bruce e la E Street Band eseguono Prove It All Night, Candy’s Room e Kitty’s Back, tre tra i brani più eclettici e musicalmente virtuosi della sua intera discografia. Tradotto: “Non solo siamo ancora qui, ma certe cose le sappiamo ancora fare bene!” Kitty’s Back è stratosferica: l’esempio di quanto la E Street Band, insieme al suo capo, sia ancora una delle migliori live rock band della storia. Un sound granitico, eccellenti virtuosismi e un’intesa che non mostra rughe, con il sostegno di una sezione fiati stra-collaudata e una sezione corale da urlo.

Un turno di notte infinito

Se Out In The Street è una concessione al più classico dei “botta e risposta” con il pubblico (e si capisce perché sia tra le 15 canzoni più suonate di sempre da Springsteen dal vivo), Nightshift riporta lungo il solco del tema dominante della serata. Lungi dal rappresentare la cover commerciale e orecchiabile che alcuni descrivono, il brano “eighties” dei Commodores è il raffinato e riuscitissimo modo in cui Bruce ci ricorda che non solo alcuni dei suoi vecchi amici, ma anche alcuni grandi musicisti che hanno fatto la storia se ne sono andati. Eppure sentiamo ancora forte la loro presenza tra noi. Marvin Gaye e Jackie Wilson, e insieme a loro tanti eroi della musica popolare ormai defunti, continuano a fare “il turno di notte”, ovunque essi siano, ogni volta che ascoltiamo la loro musica. La sensibilità musicale con cui Bruce “fabbrica” l’esecuzione dal vivo di Nightshift, con uno strepitoso Curtis King ad affiancarlo ai cori, vale da sola il prezzo di tanta faticosa attesa. 

Assenze

The E Street Shuffle, dopo No Surrender e prima di Tenth Avenue Freeze-Out, celebra la E Street Band (uno shuffle che si balla senza risparmio sulla E Street da ormai mezzo secolo). Poi Mary’s Place e Johnny 99 ci riportano in modi diversi sull’argomento dell’assenza. Più propriamente della morte. Mary’s Place, dietro il brillante travestimento di brano live da “cantiamo e balliamo tutti!”, parla del ritrovo in festa che gli amici della defunta Mary tengono a casa della ragazza per ricordarla. Johnny 99 in versione blues rock, ma anche con un pizzico di soul, ci ricorda come le istituzioni generino morte, usando violenza per rimediare ad altra violenza, spesso causata dalla loro stessa opacità.

L’ultimo rimasto

L’assenza fisica delle persone che ci hanno lasciato raggiunge il momento più alto con Last Man Standing, brano dall’ultimo Letter To You. Una canzone scritta quando Bruce si è reso conto di essere rimasto, appunto, l’ultimo uomo ancora vivo della sua prima band (dopo la morte di George Theiss, fondatore dei Castiles). Un significato che lo stesso Springsteen tiene a sottolineare nel più lungo ed emotivamente forte monologo della serata. Last Man Standing, che arriva grosso modo a due terzi della scaletta principale e poco prima della metà di quella complessiva, è forse la canzone che chiude quel percorso logico di messaggi chiave che ho tentato di delineare.

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Grandi classici per il primo finale

Da quel momento in poi, infatti, Bruce decide di ripercorrere tanti dei tratti salienti della sua produzione artistica, dalle classiche (ed eternamente splendide) Backstreets, Badlands e Thunder Road a una delle più belle rock hit di sempre (Because The Night), dalla robusta e sensuale She’s The One a due colonne portanti relativamente più recenti, Wrecking Ball e The Rising. Backstreets, in particolare, è uno dei momenti più alti della serata. Non solo per la sua incommensurabile bellezza, ma anche perché, in connubio a Last Man Standing, esprime quel senso di amicizia che, pur nelle difficoltà e negli addii, può durare until the end, fino alla fine (e anche oltre). Dopo 20 canzoni e una sempre sognante Thunder Road (un 73enne ci dice che vuole ancora andarsene da una città di perdenti per vincere), si chiude dopo oltre due ore la setlist principale. E’ ora di tirare il fiato.

BRUCE SPRINGSTEEN

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Nati per correre

Macché! Una finta pausa (anzi Bruce ormai non fa nemmeno più finta di scendere dal palco) e si riprende. Ed è significativo che in una scaletta che ha ventilato in tante occasioni l’ombra incombente della morte, gli encore inizino con due canzoni che hanno nei loro titoli la parola “born”, nascere. Ma se Born In The Usa ci tiene ancora avvinghiati alle catene della Nera Signora delle tenebre (con suoi riferimenti a una città di morti e alle vittime della guerra in Vietnam), Born To Run ci esorta ancora a correre, a qualsiasi età e in qualsiasi condizione. Per qualcuno il sole verso cui camminare è arrivato, per altri forse non arriverà mai, ma la speranza non deve mai mancare, per non finire come quegli eroi distrutti che nella strada vagano in cerca della loro ultima opportunità. Anche qui si muore, ma in un bacio infinito pieno d’amore.

Amicizie e giorni di gloria

La dolce e malinconica Bobby Jean ci riporta all’amicizia e al valore della musica. L’amico a cui Bruce l’ha dedicata, quello Steve Van Zandt che allora se ne stava andando per la sua strada, è ancora lì al suo fianco, magro da far quasi spavento ma in gran forma. Arriva poi il momento di ricordare i giorni di gloria. Quasi quarant’anni fa Bruce cantava che forse un giorno si sarebbe seduto a bere mentre ricordava i suoi Glory Days. Quanta contraddizione! Lui in realtà è ancora sul palco a mantenere quella gloria viva e attuale.

Bad Scooter e Big Man

Dancing In The Dark, un testo oscuro diventato paradossalmente un brano di festa rock, è seguita dall’inno incontrastato alla E Street Band. Tenth Avenue Freeze-Out ancora una volta ci racconta come quell’incrocio tra la E Street e la Tenth Avenue, che rischiava di essere tagliato fuori da ogni sogno musicale, ne sia diventato il fulcro quando Clarence Big Man Clemons si è unito alla band e la città, metafora del panorama rock dell’epoca, è stata spezzata in due per sempre. Da una parte quelli che amano Bruce Springsteen e dall’altra quelli che non l’hanno mai visto dal vivo.

Siamo vivi

Una grande festa che si chiude con un ritorno al momento più intimo. Triste certamente, ma non ultimativo. Tutto è racchiuso in quei due versi di I’ll See You In My Dreams: “Ti rivedrò nei miei sogni, là oltre l’ansa del fiume, perché la morte non è la fine”. Stop! Fermiamo tutto qui, per un attimo. Come quando si preme il tasto pausa. Bruce ci chiede di soffermarci: la morte non è la fine. Nessuno di noi sa cosa ci aspetta oltre quell’ansa. Forse finisce tutto, forse c’è un paradiso da qualche parte. O forse rinasceremo nelle vesti di un eroe o nelle forme di una farfalla. Forse la nostra anima continuerà ad aggirarsi qua e là, ovunque ci sarà bisogno di lottare spalla a spalla, cuore a cuore (dalla splendida We Are Alive). Ma sicuramente, se avremo combinato qualcosa per cui sia davvero valsa la pena vivere, beh… allora qualcuno ci ricorderà. E ci vedrà nei suoi sogni.

Tutti a bordo: Roma è la nostra prossima fermata

Ma intanto siamo ancora qui in tanti, nella piccola Ferrara come sotto tanti altri riflettori del mondo, e le nostre gambe ancora ricevono una scossa quando Mighty Max Weinberg conta quattro e scuote il rullante. Quando le dita celestiali di Roy Bittan danzano sui tasti neri e avorio come étoile della Scala. Quando la misurata eleganza di Garry W. Tallent traccia la strada melodica su ritmi vorticosi. Quando il genio virtuoso di Nils Logfren e la ruvida sincerità di Steve Van Zandt ci ricordano da dove veniamo. Quando la sorridente Soozie Tyrell ci sottolinea con il suo violino quanto la musica viva di suoni ed emozioni. Quando Charlie Giordano e Jake Clemons ci aiutano con discrezione a ricordare che abbiamo avuto la fortuna di vivere nella stessa epoca di Danny Federici e dello zio Clarence. E infine quando lui, Bruce Springsteen, torna a incarnare il miracolo vivente del rock. O forse semplicemente il capotreno già pronto a strillare: “Tutti a bordo, Roma è la nostra prossima fermata.”

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Leggi la mia presentazione di BRUCE SPRINGSTEEN

 

Dario Migliorini

 

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