Ieri sera a Monza, in uscita dal Parco della Gerascia dove era appena terminato il concerto di Bruce Springsteen, tre ragazzi al loro primo e unico concerto del Tour 2023 parlavano di un concerto strepitoso, di uno Springsteen grandissimo, di un nuovo grande miracolo di musica e di umanità. Prendo il loro entusiasmo come punto di riferimento perché è giusto così. In fondo un concerto va visto (e quindi recensito) per quello che è stato in sé e non con tutte quelle impalcature che gli costruiamo intorno, del tipo “la scaletta è uguale a quelle precedenti”, “ne ha suonata una in più o una in meno”, “il concerto è durato tanto o poco”. Sovrastrutture da fan innamorati ma a volte un po’ schizzinosi, che rischiano di farci perdere la bellezza e la sacralità del momento. Sì, perché il concerto di Monza è stato un concerto bellissimo, suonato molto bene da una E Street Band precisa e potente (grazie anche all’apporto dei collaudati e spesso protagonisti E Street Horns e E Street Choir) e alzato a livelli altissimi da uno Springsteen non solo sorridente e carico ma, cosa di non poco conto, anche in gran forma con la voce, in netta crescita rispetto ai mesi precedenti.

Un inizio ritardato

Nel pomeriggio le esibizioni della blues band The Teskey Brothers e dell’eclettica polistrumentista Tash Sultana, entrambe australiane, hanno tenuto compagnia ai 60.000 di Monza che lentamente riempivano ogni spazio della grande area verde racchiusa tra la Villa Reale e l’Autodromo. Della prima ho notato in particolare la splendida voce di Josh Teskey, una voce bianca di carnagione ma nera nell’ugola e giù fino all’anima. Della seconda rimane impressa la padronanza su diversi strumenti musicale, dalla chitarra elettrica ritmica e solista al sax, dal flauto alle tastiere, fino batteria e percussioni. L’ora di Bruce e della E Street Band è arrivata con insolito ritardo, quando mancavano pochi minuti alle 20. Il sole, frontale al palco, stava iniziando a calare e veli di aria fresca accarezzavano il pubblico accaldato. L’arrivo di Bruce ha soddisfatto una prima curiosità. Saluterà Monza o la più grande e prestigiosa Milano, che sta a un tiro di schioppo? Il Ciao Monza ha elevato una nuova città al rango di luogo springsteeniano, anche per la gioia di uno storico sostenitore che innalzava orgoglioso un cartello che recitava: “Ti ho visto in 79 concerti prima di poter dire che hai suonato a casa mia”.

Prima ora di grande rock

La scaletta ha previsto pochissime variazioni per venticinque ventiseiesimi rispetto a quella quasi pietrificata delle ultime date europee. L’inizio con No Surrender e con la più recente Ghosts rinnovano i messaggi forti di questo tour. Non arrendiamoci mai di fronte alle difficoltà e agli acciacchi dell’età, facciamoci guidare ancora dal rock’n’roll, ricordando gli amici che non ci sono più, quei fantasmi che anche ieri sera in più di un’occasione sono ricomparsi, aleggiando sopra il parco di Monza. Poi, insieme alla sentita missiva di Bruce ai suoi fan di ogni epoca con la toccante Letter To You, sottotitolata in italiano sui maxischermi, una lunga sezione del rock springsteeniano più classico, quello a maggiore voltaggio, estrapolato dai suoi album più storici. Menzione particolare per The Promised Land (non stufa mai e invoglia alla lotta per i propri spazi), ma soprattutto per Kitty’s Back, unica degna superstite del meraviglioso The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle. È il momento che Bruce dedica all’approccio più tecnico della musica, ricordandoci in ogni onda di quel l’oceano di suoni e di note che lui e la band sono ancora in giro a calcare i palcoscenici non solo per un messaggio che vogliono veicolare o per sprigionare l’energia di una festa rock, ma anche perché sanno fare musica e sanno fare “parlare” quegli strumenti dannatamente bene. È il momento più alto, tecnicamente parlando, e i visi intorno a me dei fan più attenti (e spesso più attempati) rimangono ancora una volta estasiati da una performance individuale e d’insieme così elevata.

L’ultimo rimasto

Dalla cover di Nightshift per arrivare fino a Backstreets si cambia registro. Rimane la festa rock, ma Bruce ci chiede di aprire l’anima e di lasciare che la sua voce e le sue parole vi si infilino fino in fondo. È il momento di approfondire il tema della morte in vita, di come affrontare i propri giorni quando i punti di riferimento a cui ti sei sempre affidato, in primis gli amici, vengono a mancare. Nightshift non è solo una cover decisamente azzeccata, ma anche l’idea del testamento musicale che un artista può lasciare. Jackie Wilson e Marvin Gaye, e con loro tanti miti della musica popolare che ci hanno lasciato anzitempo, continuano a vivere ogni volta che ascoltiamo una loro canzone. Un turno di notte che anche ieri sera ci ha visto tutti timbrare il cartellino. Bruce poi ha mantenuto Mary’s Place, per molti fan decisamente “rinunciabile”, per continuare quel concetto. Gli amici di Mary, e noi con loro, facciamo festa nel suo ricordo, perché ognuno di noi ha una Mary da ricordare. Se la versione blues rock di Johnny 99 ha continuato a parlarci di vite difficili e di morti premature, compresa quella potenziale del condannato, The River ha rappresentato un nuovo momento di emozione totale, in parte per la sua bellezza senza tempo, in parte perché era assente nelle scalette di Ferrara e di Roma, e quindi ha fatto l’esordio italiano nel tour. The River non parla di morte fisica ma della morte dei sogni di fronte alle sventure. Di morte fisica, ma anche dello splendore dell’amicizia, parla invece Last Man Standing, preceduta da un lungo monologo e anch’essa sottotitolata in italiano sui maxischermi. Ai tempi Bruce era stato definito l’ultimo eroe innocente del rock. Oggi, dopo oltre mezzo secolo, con la morte di George Theiss lui si accorge di essere l’unico uomo rimasto in vita della piccola comunità rock che è stata la sua prima band, i Castiles, quella da cui tutto è iniziato. Backstreets, splendida come sempre e ancora di più, sembra il naturale prequel proprio di Last Man Standing. Quel momento di tanto tempo fa in cui un’amicizia forte si è formata e si è poi disunita a causa del fallimento dei sogni giovanili. Un trio di canzoni (The River-Last Man Standing-Backstreets) tra i più emotivamente forti dal vivo che io ricordi, di quelli che ti spremono irrimediabilmente l’anima.

60.000 che cantano

L’ultima cinquina a chiudere la sezione principale del concerto è la sequenza di alcuni suoi brani di grande effetto scenico. Because the Night e She’s The One si concedono una parentesi tematica più leggera. La prima consente ai fan di ogni età di cantare all’unisono ogni verso e a Nils Lofgren di mostrarci tutta la sua bravura (quel folletto ha oltre 70 anni, ma fa ancora il saltimbanco sul palco). La seconda parla puramente di attrazione e nella sua potente sensualità continua ad avere un impatto clamoroso nelle esibizioni live. Wrecking Ball, con la sua ritmica coinvolgente e il suo motivo tradizionale, ci ha raccontato degli effetti del tempo che passa, che ahimè porta con sé anche la distruzione di posti mitici come il glorioso Giants Stadium. The Rising è tornata a ricordarci che a volte si muore nel tentativo di salvare altre persone, colpite dalla malvagità dell’essere umano nella sua forma deteriore, quando si lega a meccanismi di potere e ad idealismi distorti. Infine la sempiterna Badlands chiude dove No Surrender aveva iniziato: non arrendersi, continuare a lottare perché questo mondo sottosopra inizi a trattarci un po’ meglio.

Tutto sembra scritto

Tutto sembrava instradato sulla falsariga delle ultime date europee. 19 canzoni nella setlist principale e 6 nella sezione dei bis. L’assenza di Thunder Road a chiusura della prima e di Born In The USA all’inizio della seconda, presenti invece nelle prime date europee, lasciava presagire un finale scritto. Del resto la sequenza formata dal capolavoro Born To Run (l’irraggiungibile prima classificata tra le canzoni più suonate di sempre da Bruce dal vivo), dalla dolce Bobby Jean (torna il senso dell’amicizia, specie con il pirata che Bruce si ritrova al suo lato sinistro sul palco) e la scanzonata Glory Days (che però nasconde un lato di malinconia per una vecchiaia allora solo preventivata e ora incipiente) sembravano confermare il presagio. Anche la successiva Dancing In The Dark, con Bruce a petto scoperto come simbolo fisico della potenza del rock e della volontà umana contro il passare del tempo e le avversità (nel suo caso contro l’infingardo male della depressione) non ha invertito i pronostici. Impostata poi, come da cliché, la presentazione della legendary E Street Band e degli altri musicisti/coristi presenti sul palco e avviata la solenne Tenth Avenue Freeze-Out (a proposito di amici che non ci sono più il maxischermo ci mostra due giganti come Clarence Clemons e Danny Federici), Bruce si è avviato al finale. Il commiato alla band che prelude l’esecuzione in solitaria di I’ll See You In My Dreams.

L’italiana Twist & Shout

A quel punto tutti sapevamo: non avrebbe suonato nulla dopo I’ll See You In My Dreams, è un momento sacro a cui giustamente non rinuncia. Se avesse voluto eseguire pezzi da novanta come Thunder Road o Jungleland li avrebbe fatti prima. Quindi? C’era una sola canzone che a quel punto Bruce avrebbe potuto regalare specificatamente a Monza/Milano, nel ricordo di 38 anni fa e di tanti altri momenti gloriosi. Anche se non è una tour premiere, Twist & Shout è arrivata non solo per misurare l’energia rimasta ai 60.000 di Monza ma come simbolo di un rapporto speciale che lega l’Italia e Milano (e la neo arrivata Monza per trasposizione) all’eroe dei due mondi. Non solo dell’America e dell’Europa, ma soprattutto del mondo delle note e di quello dei significati, che Bruce unisce come pochi sanno fare.

La morte non è la fine

La chiusura di I’ll See You In My Dreams è un altro momento di pura intensità emotiva che non dimenticheremo così facilmente. La canzone ha il pregio di essere già un classico non appena pubblicato. Bruce sa di aver scritto qualcosa di grandioso in quel ritornello: “Ti rivedrò nei miei sogni, oltre la curva del fiume, perché la morte non è la fine.” Ecco il sunto di tutto il concerto, ecco perché è lei a chiudere i concerti di questo tour, ecco perché non può essere diversamente.

Un grande rocker, un uomo ritrovato

Ciò che fa di Monza un grande concerto non è la statistica. Non sono le scelte di scaletta e nemmeno la chicca del remake della “italiana” Twist & Shout. Alcuni elementi, non secondari per un concerto rock, come l’esecuzione musicale, la qualità del suono e soprattutto della voce di Bruce sono stati certamente all’altezza. Anzi, proprio la voce di Bruce ha sorpreso per il suo netto miglioramento rispetto alle prime uscite del tour. Ma Monza è stato un grande concerto soprattutto perché Bruce ha messo gioia laddove in precedenza, comprese le situazioni di Ferrara e Roma, era prevalsa la concentrazione e forse la tensione. Le sensazioni che avevo espresso nelle mie recensioni dei due altri concerti italiani, che mi facevano vedere un Bruce alla difficile ricerca di un equilibrio tra gioia e sofferenza, tra il suo lato materno e quello paterno, ieri sono svanite dal mio radar interiore. Ieri Bruce mi è sembrato il solito grandissimo rocker, ma anche un uomo che si è ritrovato. Il sorriso acceso con cui ha baciato la scimmietta di una fan o la sincera emozione (con incluso lieve calo di voce) con cui ha salutato il pubblico italiano preannunciando un prossimo ritorno, ne sono state la conferma, oltre ogni possibile retorica.

Dario Migliorini

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